Un englishman in Naples

Lord William Hamilton fu inviato a Napoli nel 1764 da re Giorgio III come ambasciatore e rappresentante della corona inglese.
Appassionato di archeologia e vulcanologia, si stanziò ben presto in uno dei luoghi più panoramici della città, prendendo in affitto una parte di palazzo Sessa ed, in seguito, facendosi costruire un imponente villa sulla costa vesuviana, nell’attuale territorio di Torre del Greco.

Dalla sua villa poteva, infatti, godere di una vista impagabile sul golfo e sul Vesuvio. Egli non cessava mai di ammirarlo dal suo cannocchiale, che era puntato costantemente in direzione del vulcano. La sua dimora divenne ben presto una “wunderkammer”, una camera delle meraviglie a tutti gli effetti, così come ebbe modo di notare anche il grande Goethe durante uno dei suoi soggiorni napoletani. Il lord amava circondarsi di oggetti antichi, esotici, bozzetti, dipinti e tesori che iniziò a collezionare sempre più avidamente nel corso del tempo. Erano questi gli anni in cui gli scavi borbonici di Pompei ed Ercolano erano in pieno fermento; innumerevoli erano le depredazioni, le compravendite e i trafugamenti di marmi, affreschi, mosaici e di oggetti prestigiosi che venivano alla luce giorno dopo giorno.


Nel 1768 sir Hamilton divenne diretto corrispondente della Royal society di Londra, la più antica società scientifica inglese e questa sua corrispondenza iniziò a fruttargli un notevole prestigio, poichè divenne il referente diretto delle pubblicazioni scientifiche sull’attività vulcanologica del Vesuvio e dei Campi Flegrei. Su sua commissione vennero realizzate numerose gouaches e bozzetti che illustravano molto chiaramente e dettagliatamente i paesaggi vulcanici e i loro fenomeni. Le sue pubblicazioni ottennero immediatamente un enorme successo, riscontrando curiosità ed interesse da parte dei suoi diretti corrispondenti. Periodicamente da Napoli partivano spedizioni in direzione della capitale britannica, mirate alla diffusione dell’immenso patrimonio che Hamilton desiderava esportare e far conoscere al di là della Manica. I suoi “bottini” venivano caricati su grandi bastimenti e destinati ad approdare in terre lontane ed estranee, arricchendo sempre di più la collezione del giovane British Museum ed i mercati degli antiquari londinesi. Alcuni tesori si persero per sempre nel fondo del mare, così come accadde nel 1799 a seguito dell’epocale naufragio della nave Colossus.


Ai noi posteri va l’ardua sentenza di giudicare o di riflettere sul ruolo che personaggi del genere abbiano svolto nel periodo delle grandi riscoperte del passato. Che siano giuste o sbagliate, le loro azioni sono da circoscrivere nella mentalità degli eruditi di quel tempo. L’approccio alla tutela, la prevenzione e la conservazione del “bene culturale” era ancora lontana anni luce. Indubbiamente non va trascurato il contributo lasciato dai nostri antenati nello studio sistematico ed analtico dei reperti. Ciò è stato fondamentale per l’approccio di una metodologia di indagine scientifica che l’archeologia moderna segue ancora oggi.

Sir Hamilton